sabato 9 aprile 2011

Se fossi un uomo, un marito, un padre (prima parte)

Provo a raccontare una storia scrivendo come se fossi un uomo. Un signore, un pater familias sulla sessantina, con quattro figlie e nessuna moglie. Ho conosciuto l’emozione di dire ‘sì, lo (ti) voglio’, mi sono sufficientemente preoccupato per il mutuo della casa, ho discusso molto con la donna che ho amato, sono stato serenamente sdraiato sul mio divano in attesa del rientro di una delle creature col mio cognome.
Ricordo che ogni settembre, con la riapertura delle scuole, le ragazze tornavano abbronzate e svogliate in città, mentre io e Clara – mia moglie, ricominciavamo a lavorare nei nostri studi. Siamo stati sposati per  molto, e potremmo raccontare altrettanto di noi. La nostra storia si è interrotta un giorno ics del calendario, quando Clara decise di lasciarci.
Non ne poteva più: troppi weekend passati alle feste degli amichetti delle bambine, troppi vestitini da lavare, troppe gare di atletica e saggi di danza, troppe gite fuori porta al mare con mia madre, la Signora Laura.  Una marea di mamme e poca gente nella sua vita. Così ha deciso, “prendo tutto, scrivo una lettera ad Alberto (io), che comunque non capirà, e vado via”. Sapeva che sarebbe stata odiata per quel gesto, perché non si possono abbandonare quattro figlie ed un marito, ma lei non voleva più stare così. Si guardava attorno, la sera, dopo che tutti erano a letto e io dormivo davanti alla tv. Erano solo le dieci, e non le sembrava vero di dover pulire un’altra volta i piatti, passare la scopa, alzare le sedie, portare fuori la spazzatura, preparare la colazione per le piccole, e poi addormentarsi al mio fianco come la notte prima. Non respirava sdraiata al mio fianco, accanto all’uomo che l’aveva conquistata portandola al Circolo dei Poeti Maledetti, dopo le lezioni di Estetica del martedì mattina. Se mi osservava dormire rivedeva la cicatrice che mi ero fatto in campeggio, al mare, quando Lidia aveva solo 2 anni e la tenda non si voleva montare. Orgoglioso le dicevo “Ce la faccio Cla, che credi scusa… due tubi e un telo. Porca troia…”. Il tempo di concludere la frase, e mi infilavo il tubo, uno dei due, appena sopra l’arcata sopraccigliare. Un centimetro più in basso e si ritrovava un marito senza un occhio. Un pirata. Mmmh. Un pirata. Che ridere dio santo, pensava Clara mentre mi guardava respirare profondamente nel mezzo della notte. Un pirata, Alberto. Un tempo sì, forse. Oggi no, oggi vive per le sue figlie, ne va orgoglioso; e Clara, un tempo “Amore”, “Testina di Vitello”, “Pasticcio”, “Piccola Merdina”, era diventata solo la madre delle sue quattro bambine, ormai ragazze. Eppure lei non si sentiva madre, non quella sera. Le mancava parlare con me come quando facevano colazione, in campeggio, mentre Lidia correva per le piazzole con gli altri bambini smutandati. Lei e io in costume, assonnati, bevevamo caffè e mangiavamo il pane appena comprato dal fornaio, con la marmellata del supermercato. Fantasticavamo sul futuro di Lidia, così rumorosa e maldestra. Cadeva in continuazione: due anni e già tre cicatrici. Sarebbe stato un miracolo se fosse arrivata alla prima elementare con entrambe le gambe, commentava Laura, mia madre. “Mamma, Lidia arriverà anche strisciando a scuola, ma ci arriverà. Non ti preoccupare, al massimo le mettiamo due rotelline rosa, così non starà indietro all’entrata...eh?”. Clara mi amava molto quando sfottevo le preoccupazioni di mia madre per Lidia, e in silenzio le rispondeva con un sorriso, senza dire nulla. Io le accarezzavo la schiena con la mano aperta, mi fermavo sulla sua nuca, e la scuotevo piano, poco. Un gesto abituale, più intimo di ogni cosa avessimo mai fatto insieme. Significava “Lo so, mia madre non si sopporta. Lo so, è irritante. Ma tra qualche minuto lei se ne tornerà a casa sua, lasciandoci soli. E Lidia potrà farsi un’altra cicatrice”.

Nessun commento:

Posta un commento