domenica 20 marzo 2011

Untitled #02_Parte terza_We kissed

Fine della storia di Angelo e la narratrice.
Buona lettura!

Settimane dopo, rivedo Angelo. Casuale ma prevedibile, il temporale estivo delle cinque mentre sei in giro in infradito e pantaloncini. Il parcheggio del supermercato dietro casa, ore sette e trenta circa, picco di presenze di gente molta incazzata. Di solito evito quest’orario. Nuoce gravemente alla salute, come le sigarette e la cioccolata davanti alla tivù. Entro contenta perché ho concluso la giornata lavorativa, esco stressata dalla coda alle casse. Invece mentre chiudo la macchina, con il click click automatizzato, vedo Angelo di fronte a me. Senza coda di cavallo, sembrerebbe. In jeans e giacca impermeabile color arancione, con un orribile cappellino di lana, esito un attimo prima di chiamarlo. Sì, l’ho salutato io per prima. Non si dovrebbe, recita il manuale delle gatte morte in calore, ma io non sono una gatta morta. Quindi ciao! Ehi gambe molli! Scusa come diavolo ti viene in mente di iniziare così, ragazzo che s’accompagna con bionde dalle code equine e cappelli di lana dall’indubbio gusto estetico? Ovviamente sto zitta, e accenno un semplice Ah ciao. Scherzo eh. Figurati pezzo d'idiota che non sei altro, penso sempre. Come stai... Marianna? No, errore, dico con forza stavolta. Puoi pure trovare appellativi deprecabili, gigioneggiare come fossi Walter Chiari, ma il mio nome te lo devi ricordare - penso senza virgole. Scusa ma ho una pessima memoria… Marina? Strabuzzo gli occhi. Manuela, Marcella... Me… Mi… Prova tutte le sillabe, come un alunno di prima elementare davanti alla maestra. Ci sei quasi, hai preso la prima lettera, dico. Ah vedi! Stai entrando anche tu, Emme? Sì, spesa veloce spero. Bene, facciamola insieme, Emme.


Angelo mi cammina davanti, si volta e mi sgama mentre mi aggiusto il ciuffo specchiandomi nelle vetrate dell’entrata. Non sei passata dal parrucchiere? No, ma dovrei. Eheheh, ride Angelo, passandosi la mano sul volto. Nooo, ribelle e arruffato non è male… Sì, certo, l’hai letto su Vogue?, rispondo acida. Scherzavo eh… te la sei presa…? Ma no, era una battuta anche la mia, tranquillo. Angelo si ferma, sorride ancora. Comunque dicevo sul serio, pettinata così non stai male. Sono confusa: il ragazzo mi sta prendendo in giro, fa il galletto, si diverte. E neppure si ricorda come mi chiamo. Maallora perché mi piace? Angelo si avvicina, interrompendo i miei pensieri profondi sul senso della vita (la mia). Te la sei presa però – continua a punzecchiarmi. Mi sento a disagio, e la sciura che mi spinge per acciuffare i peperoni non aiuta. Angelo, visto da così vicino (anche lui subisce il pressing a uomo di un’anziana ed il suo carrello della spesa), sembra un marinaio. Non si è levato il cappello di lana, la barba cresciuta mi fa pensare a Capitan Findus con trent’anni in meno, e il tono della sua voce è troppo alto. Mi prende il braccio, piega le ginocchia appena, abbassa la testa per guardarmi negli occhi. Scusa; se ti ho offesa, ti chiedo scusa. Era per fare una battuta, per… Bum! Una bambina, anni 3 circa, cade ai piedi di Angelo. Pianto, lacrime, dolore inconsolabile espresso ad 100.000 decibel. Mi piego, la raccolgo, le sorrido. Angelo fa lo stesso, solo aggiunge una cosa che ancora ricordo. ‘Ehi pulce, sono così brutto? Ti faccio così paura da piangere così tanto? Chiedilo alla signorina qui, chiediamolo a lei dai’. La piccola smette di piangere, è presa in contropiede, di solito viene consolata, e invece l’uomo barbuto le fa una domanda. Allora gira gli occhioni bagnati verso di me, fa ‘pat pat’ con la manina sulla mia giacca, mi tocca il viso cospargendolo di muco e lacrime. Signora – lui – è – brutto? Guardo la nana, guardo Angelo. Il signore? Nooo, non è brutto. Ha una pessima memoria, fa battute che non fanno ridere, è impertinente, non ha gusto nella scelta dei cappelli, e dovrebbe anche tagliarsi la barba lunga. Ma non è così orribile, che dici piccola? La pulce, sempre più disorientata, ruota verso Angelo. No, dice che non sei brutto. Per un secondo rimaniamo tutti e tre in silenzio, io e lui inginocchiati altezza nano da giardino. Lucia! Lucia cosa fai…!? Lascia stare i signori, dove eri finita? Cosa hai fatto, sei caduta? Ti sei fatta male? Ti sei sporcata? Hai pianto? Non mi posso girare un attimo e sparisci! Come ogni madre, infila mille domande al minuto, penso.

Lucia si allontana seduta sul passeggino, sporgendosi col visino verso di noi, sorridendo da furba, facendo ciao ciao con la mano ad Angelo. Solo a lui, ne sono certa. Rimaniamo soli. Noi e le melanzane in offerta. Allora mi accorgo che lui mi guarda, come in attesa. Dico ‘Prendo le melanzane e scappo’. Lui ride, per la milionesima volta. Sei un tipo strano, sei davvero strana, come fai a dirmi ‘prendo le melanzane e vado’?! Ahahahaha, pazzesco. Assumo il mio sguardo basito, cado nel mutismo, sento il neurone sbattere contro le pareti del cervelletto ‘Fatemi uscire! Fatemi uscire! Questa non ce la può fare cazzo!’. Angelo prende una melanzana, me la punta contro come un pistolero. Vorrei solo portarmelo a casa, melanzane annesse, e l’ha capito anche lui. Mi bacia sulla bocca, col cappello imbarazzante, la barba ispida, la melanzana in mano. Lo bacio sulla bocca, con i rimasugli del moccio di Lucia ancora da qualche parte sulla faccia. SI AVVISA LA GENTILE CLIENTELA CHE IL SUPERMERCATO CHIUDERA’ TRA DIECI MINUTI.

sabato 19 marzo 2011

Untitled #02_How It All Began

Continua la storia di Angelo e la narratrice.
Se non vi ricordate dove / come eravamo rimasti, leggete qui.
Andiamo alle origini, saltiamo all'indietro, facciamo i salmoni, inseriamo la retromarcia.

Buona lettura!

Angelo avevo intuito avesse ottimi muscoli. L’avevo avvistato sulla pista di atletica, quella alla periferia nord, quella del centro sportivo comunale. Non è un impianto che consiglierei, ma da quando ho conosciuto  Angelo ho iniziato ad andarci tutti i sabati mattina, e le domeniche pomeriggio. In quel periodo avevo un’energia difficile da spiegare. Il lavoro nuovo mi piaceva, la primavera mi rinvigoriva e diciamo soprattutto che Angelo era un ottimo motivo per tornarci assiduamente. Correva sempre, sia che io arrivassi alle 10 che alle 16. Non lo incontravo tutti i finesettimana certo, ma pensavo che in ogni caso un po’ di movimento avrebbe giovato anche a me. Un giorno sono caduta, modalità sacco di patate. Leggiadra come una fatina del bosco della mia fantasia. Non mi sono fatta nulla, ho risposto a chi mi soccorreva. Che poi (dai!?) era Angelo. Santambròs!, ho pensato. Vieni, siediti a bordo pista, intanto ti controllo la caviglia. Oddio no, non ora, non adesso, non qui. Mi sono dimenticata il silkepil. E porcogiuda questo mi vuole palpare la caviglia oggi. Ma Cristoforo! Oh no, lascia stare, non mi sono fatta niente, anzi guarda avevo anche finito l’allenamento, quindi vado direttamente a casa. Angelo sorride di sbieco. E mi lascia andare. Ma scusa insisti babbeo!, penso. Prendo la sacca, mi massaggio la spalla destra, sento un piccolissimo dolore acuto, una fitta che dura al massimo tre secondi. Non ci bado ed esco dal centro sportivo. Direzione: casa, doccia, pasta e pomodorini che ho una fame infame.
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Arrivo in ufficio alle nove, appoggio la borsa sulla scrivania, appendo la giacca. Ehi principessa, buongiorno! Nina, la donna delle pulizie, mi accoglie come se fossi davvero una principessa. Dice che le ricordo una nipote, rumena come lei. La principessa sta molto bene stamattina, grazie Nina. E lei come sta? Bene bene, oggi è il compleanno di mia nipote, quella che ti assomiglia tanto. Ah, la vera principessa! Allora auguri a… Ma come si chiama? Helena. Allora faccia i miei auguri alla principessa Helena.
Questo scambio 'sorrisi e saluti', che occupa i primi due minuti della mia giornata, serve più a me che a Nina. Cominciare subito con i pazienti, in reparto, sarebbe drastico. Oltretutto continuo a pensare ad Angelo. E’ solo lunedì e mi prometto che entro sabato devo trovare il tempo per farmi in silkepil. E magari mi compro una tuta nuova, che quella che uso è consumatissima. Me la compro non eccessiva eh, non firmata, non di spugna, non acetata che fa troppo Madonna, non antitraspirazione che non ci credo, non da 'finta atleta del sabato che però ha tutto coordinato'. Mi sa che posso tenermi pantaloni e felpa che ho a questo punto. In fondo il grigio Champions mi dona, sembra che corro in pigiama eh!, ma è confortante muoversi in abiti che so perfettamente come mi stanno. Anche se del 1999. Cazzo, sono in ritardo, devo assolutamente darmi una mossa.
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Se fino ad oggi non avete ancora capito come abbia fatto a conoscere Angelo, sedetevi e abbiate pazienza. Ma no, noo, nooo! Cavolo che palle. Sì sì arrivo, cosa suoni ancora telefonino di merda! Parli da sola? ... cosa, che...? Dicevo, parli da sola?, dice lui puntando l’indice roteante vicino alle tempie. Della serie: oltre che possedere scarse capacità deambulatorie, hai pure qualche rotella fuori posto. Ah no! No, infatti, scherzavo, tranquilla. Come stai? Mh bene grazie, e tu? Benone, mi chiamo Angelo. Stringo la sua mano, un po’ perplessa. Devo scappare in ospedale, sono reperibile e non posso fare altrimenti. Mi posso portare dietro la tua mano, che dici?, penso. Invece rimango in silenzio, abbozzo un sorriso e, improvvisamente, divento Don Giovanni in gonnella. Piacere. Senti ora devo correre via, ma.. ma ecco ti va di uscire per un caffè qualche giorno? Angelo ride. Certo, perché no; ci vediamo in pista e poi caffè. Perfetto, dico prendendo la mia sacca. Poi l’imprevisto. Ue’ ciao eh! Angelo urla a una coda di cavallo biondo cenere (ravvivato da ottimi colpi di sole) che sculetta in Nike verso l’uscita. La coda di cavallo si volta, sguardo indagatore, collo allungato, obiettivo puntato. La coda di cavallo cammina veloce verso Angelo, lo bacia a stampo, saluta cortesemente anche me. Ma minchissima! E questa da dove salta fuori? Chi sei piccola topina sorridente!? Chi – se –iiiii ? Mantengo il controllo, inclino la testa in avanti, ricambio il saluto, mi presento. Ciao. Ciao e te, cosa. Ovviamente il fatto che abbia una coda di cavallo bionda appresso non intacca la sensazione di piacere estremo che provo incrociando gli occhi di Angelo. Sticazzi, magari è sua sorella e sono molto affettuosi in famiglia. Giro i tacchi (le Adidas sfatte), affranco la mia posizione di dottoressa in procinto di soccorrere il mondo in piena catastrofe umanitaria, ravvivo il ciuffo ribelle e appiccicato alla fronte e smammo. Sono di troppo, anche nel caso in cui la coda bionda fosse effettivamente sua sorella.


giovedì 17 marzo 2011

Find A Place To Call Home

Il posto in cui dovrei vivere è in Francia. Ed è Parigi. Se solo non parlassero francese, considerando lo stato regressivo in cui versa il mio, di francese. Evitiamo l'elenco di tutti i motivi per cui dovrei (non potrei o vorrei) vivere a Parigi, e diciamo la cosa più ovvia (a mio parere) di tutte.

Circa tre anni fa, tornando a Parigi dall'Italia, ho elaborato questo pensiero. In pullman, tratta Charles de Gaulle / Opera. Praticamente in tangenziale, attorno solo palazzoni e macchine. La periferia, se non è brutta, è comunque facilmente dimenticabile. E' sera, non notte, ma fuori sta diventando buio. Non ricordo cosa stessi pensando, o se fossi stanca. Fino a che in lontananza non vedo la tour Eiffel. E' piiiiiiccola piiiiiccola. Fredda, lontana, per niente romantica. Ed io capisco cosa significa mettere radici, o perlomeno averne voglia.

Ho sempre pensato, anche quando ero bambina e non capivo granché, che non avrei dovuto abitare nel posto in cui ero nata solo per il fatto di esserci nata. Il caso aveva determinato il luogo di provenienza, ma poi avrei potuto scegliere dove andare, con chi, come e perché. Nessuno, pensavo, poteva legarmi; ma soprattutto nessuno poteva scegliere dove, con chi, come e perché per me. Il posto in cui avrei deciso di vivere sarebbe stato quello in cui mi sarei sentita, io, da sola, a casa.

Su quel pullman, vedendo una piiiiiccola e fredda tour Eiffel, ho pensato 'Finalmente sono arrivata'. Ovvero: posso farmi una doccia, dormire nel mio letto, rimettere lo spazzolino al suo posto, togliermi le scarpe senza chiedere il permesso. Casa, lontano da casa.

Oggi sono nuovamente lontana da quella piiiiiccola tour Eiffel, ma la sensazione che ho avuto, rivedendola un mese fa è stata impressionante. Come un cucciolo che riconosce l'odore della mamma, ho annusato la puzza della metropolitana. Sono stata nel mio quartiere, fatto la spesa nello stesso Monoprix, preso lo stesso pullman. Da sola. In giro. A casa.

venerdì 11 marzo 2011

All'inizio era un elenco

Un post che otrebbe essere usato come esercizio base per creare personaggi. L'elenco delle qualità, delle mancanze, dei fastidi di ogni persona. Per iniziare, per farla semplice, cominciamo dai miei. Cinque punti per delineare un carattere.

1. Non mi piace essere chiamata 'amore' da chiunquesia. Oltre che essere di indubbio gusto chiamarsi tutti amore, mi infastidisce la confidenza non concessa che estranei (o conoscenti) pensano gli sia stata accordata da un 'silenzio assenso' neppure lontanamente preventivato.
2. Mi annoio molto quando si parla del tempo. Se c'è il sole, lo vedo. Idem per la pioggia, i temporali, le nuvole, la nebbia. Capisco la domanda rompighiaccio, quella da ascensore o primo mattino in ufficio. Svengo dopo un quarto d'ora di batti e ribatti sul caldo improvviso di febbraio, ad esempio.
3. Non voglio allargare le mie relazioni pubbliche. Non cerco amici. Non che non ne voglia, ovvio. Sto solo dicendo che c'è differenza tra l'allisciamento da public relation e la vita di tutti i giorni. In cui, per mettere i puntini sulle i: non sorrido 24/7, non accordo la stessa attenzione a tutti, non perdo tempo con la massa di gente delle feste se ho un amico fidato e debosciato con cui starmene a ballare al centro della pista.
4. Non credo nella quantità. Ho eliminato molti amici fb non per antipatia, ma perché non saprei come gestirli. Chi voglio sia presente, chi scelgo (e da cui, ça va sans dire, vengo scelta) lo tengo stretto, lo pedino, lo osservo in silenzio, lo amo.
5. Ultimo punto. Sembro scema. Ma non lo sono mai stata. Ecco come mi difendo da chi so non fa per me quindi: rido in continuazone, schiamazzo, dico cose stupide. Solitamente chi si ferma qui, al sorriso ebete e alle puime di struzzo, è lontano anni luce da chi sono. Farsi capire, cercare le parole e spiegare rappresenta una perdita di tempo comprovata sul campo. Continuare a sorridere, in questi casi, è la via d'uscita.

martedì 8 marzo 2011

Untitled #03

Storia con dedica. Non per tutte le donne, nonostante l'otto marzo. Ne omaggio una, ma le intrattengo tutte. Gli uomini possono sbirciare dal buco della serratura comunque, as usual. Buona lettura!

Guidi male, come ricordavo.
Pessima memoria, come ricordavo.
No Livia, tu guidi proprio male eh. Mi sono fatto il segno della croce prima di salire, fai un po' te.
Ho uno stile sportivo. Nonché una fame allucinante. Ma perché devi scegliere sempre posti così lontani quando usciamo a cena? Sono le nove e un quarto, ora che arriviamo...
Se ci arriviamo, se.
Si si si. Come vuoi, lasciamo perdere. Come stai?
Bene. Il solito. 
...
Tu?
Bene. Benone. Cioè sto da dio.
Odio il sarcasmo prima dei pasti Livia.
Sto davvero da dio Giacomo.
Ah. C'è un motivo (attenta al passante sulla destra...)?
C'è sempre un motivo.
E non sono io, il motivo.
No, in quanto ex, tu sei stato motivo di molte cose. Tutte passate però. Oggi c'è un nuovo motivo.
Che ha un nome, immagino.
Mh. Forse.
Perché me lo stai dicendo Livia? Mi punisci?
??? (effettuando veloce inversione a U, per parcheggiare sul lato opposto della strada)
Lo capirei, se fosse una punizione intendo.
Non c'entri. Te lo dico perché siamo rimasti amici. Perché mi hai lasciata tu. Perché ho elaborato il lutto, dopo averti ammazzata con le mie stesse mazze ferrate. Perché per me è importante. E mi piace l'idea di confidarti una cosa bella. Quindi no, affermo con certezza che non si tratta di una punizione.
Ochei, sembri sincera. Ma la cosa mi imbarazza. 
Non vuoi sapere perché sto così bene?
Sì, ma fammi un resoconto generale. Un report.
... cazzo però!
Dai per la madonna!
Allora, ci provo. E' una sensazione inaspettata. Improvvisa. Invadente. Estremamente rilassante. Come se avessi guidato con il freno a mano tirato fino poco tempo prima, e ora puf!, viaggio con la mano fuori dal finestrino lungo la costa. 
Capito.
Come rilassarsi sul divano davanti a un film sotto le coperte al silenzio al buio alle nove di sera. Con qualcuno affianco.
Sì.
Come fare colazione con una mega brioche spalmata di nutella in una gigantesca tazza di caffelatte, dopo la doccia e con il sole fuori.
Livia....
Come pranzare fuori e poter orinare cose gustosissime, andare a ballare d'estate, scoprire un locale arredato con oggetti che vorresti nella tua casa...
Livia ho capito, adesso però...
Come il sesso.
Ci sei andata a letto?
Lo vuoi sapere?
Sì, se vuoi dirmelo.
No...
Ok.
Lasciamo finire. Non ho finito. Dicevo: No, non ancora. La sensazione di benessere potrebbe svanire poi. E la sensazione è la cosa che più conta ora.
Certo, questo è molto 'liviesco'.
Però la prossima volta che ci vedremo faremo tantissimo sesso. Altrimenti sarebbe un'enorme perdita di tempo.

Livia apre la porta del ristorante, Giacomo la segue. 'Stavolta mi sa che è davvero tutto alle spalle. Mi ha dimenticato, senza portarmi rancore. Mi ha lasciato andare, senza reclamare. Mi ha superato, senza dovermi odiare. Mi sembra impossibile, ma è successo. Chissà quanto durerà.', riflette lui. 'Speriamo facciamo le crespelle in questo posto dimenticato dal signore!', pensa lei.